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9. Il giudizio finale: giudicati sull’amore (Mt 25,31-40)

 

Dal Vangelo di Matteo:

 

      “Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo.
Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere?
Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito?
E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?
Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me” (25,31-40).

 

Il brano del giudizio finale chiude il discorso escatologico, cioè sulle “cose ultime”, che Matteo presenta nei capitoli 24 e 25 del suo vangelo. Dopo aver profetizzato la distruzione di Gerusalemme e del suo tempio, il primo evangelista passa a parlare della venuta del “Figlio dell’uomo sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria” (Mt 24,30).

 

1. Una vigilanza operosa

 

Il centro dell’insegnamento di Gesù nel discorso escatologico, non è su quando tornerà il Figlio dell’uomo, ma su come vivere l’attesa, che deve essere caratterizzata da una vigilanza costante, non sapendo quando il Signore verrà, ma anche operosa, come esemplificano le parabole raccontate: quella del maggiordomo invita alla fedeltà nel servizio e nella missione ricevuta; quella del delle dieci ragazze in attesa dello sposo sottolinea che la vigilanza deve essere previdente, capace di orientare la propria vita, perché la lampada della fede sia sempre alimentato dall’olio della speranza e della carità; quella dei dieci talenti è un comando a trafficare i doni ricevuti in un’ottica di servizio e di condivisione, senza lasciarsi prendere dalla paura egoistica che spinge a tenere per sé il talento che ci è stato dato.

Con il brano dell’incontro finale con il Figlio dell’uomo Gesù anticipa le domande dell’esame: al termine della nostra vita saremo giudicati sull’amore.

Ma “questa pagina -dice Giovanni Paolo II- non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo. Su questa pagina, non meno che sul versante dell’ortodossia, la Chiesa misura la sua fedeltà di Sposa di Cristo” (NMI 49). Perché nella persona dei poveri c’è una presenza particolare di Cristo, che testimonia lo stile dell’amore di Dio, indicando alla Chiesa la scelta preferenziale per gli ultimi.

Vicino alle vecchie povertà che coinvolgono milioni di persone costrette a vivere in condizioni indegne di persone umane, causate da forti contraddizioni di crescita economica, si apre lo scenario non meno preoccupante di nuove povertà che coinvolgono persone “esposte alla disperazione del non senso, all’insidia della droga, all’abbandono nell’età avanzata o nella malattia, all’emarginazione o alla discriminazione sociale”.

Accogliere l’appello del povero è ascoltare l’invito stesso di Cristo, pronto a dare risposte sempre nuove a bisogni diversi. E’ necessaria “una nuova fantasia della carità”, che esprima vicinanza, solidarietà e condivisione, perché in ogni comunità cristiana i poveri si sentano come a casa loro.

“Senza questa forma di evangelizzazione, compiuta attraverso la carità e la testimonianza della povertà cristiana, l’annuncio del vangelo, che pure è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui l’odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone. La carità delle opere assicura una forza inequivocabile alla carità delle parole” (NMI 50).

 

2: Gesù solidale con gli ultimi

 

Il criterio di distinzione fra pecore e capri, fra il grano e la zizzania, fra pesci buoni e cattivi, fra chi ha speso bene i talenti della propria vita e chi li ha sciupati, è l’essere stati solidali con i bisognosi. Il loro elenco, presentato dal re-giudice, comprende gli affamati, gli assetati, i forestieri, i nudi, i malati, i carcerati, che esemplificano tutte quelle situazioni di povertà, emarginazione, e oppressione che devono essere assunte da chi vuole avere parte al Regno eterno. Significativo lo stupore di chi, avendo servito o meno i bisognosi, viene chiamato o allontanato come se lo avesse fatto a Cristo: il suo legame col povero è così profondo da essere un’unica persona. Accogliendo o rifiutando i più indigeni, nella quotidianità della vita, si accoglie o si rifiuta Cristo stesso. Soccorrere i poveri è aiutare Dio stesso. Gesù è l’identificazione di Dio e del povero.

Le opere di misericordia indicate, già presenti anche nell’antico testamento, come ad esempio in Giobbe (22,6-7) e Tobia (4,16), sono cose semplici, che si possono compiere tutti i giorni, che si avvicinano a quello che ha fatto Gesù e indicano il comportamento di solidarietà che la comunità cristiana deve avere verso i piccoli e gli ultimi.

La sofferenza dell’uomo e i bisogni del povero non lasciano mai indifferente Gesù, che indica anche al discepolo lo stesso atteggiamento di attenzione e vicinanza solidale. Se Gesù sfama moltiplicando i pani, a chi crede in lui chiede di condividere quello che ha; se il Maestro guarisce limando la malattia, al discepolo chiede di condividere la sua compassione andando a visitare chi è solo e sta male, per stargli accanto e servirlo, sapendo che Cristo se identifica con lui.

Nell’epoca delle grandi potenzialità di comunicazione, mentre si disegnano sofisticati progetti finanziari, c’è il rischio che la vecchietta della porta accanto muoia lentamente di solitudine; mentre negli ambienti riscaldali delle strutture parrocchiali si discute di nuove strategie pastorali, nel parco vicino gli immigrati dormono all’aperto riparati dai rami del boschetto e dai cartoni del supermercato.

Occorre fissare lo sguardo su Gesù non per un giudizio estetico o per riflessioni mistiche tranquillizzanti, ma per copiarlo. La strada teologica più sicura è quella cristologia: bisogna guardare Gesù per conoscere Dio e capire la sua natura divina, ma ciò è possibile solo sintonizzandosi sulla lunghezza d’onda dell’amore, perché Dio è Amore e solo chi sperimenta l’amore nella concretezza della vita può entrare dentro il mistero di Dio.

La Bibbia individua nel peccato di idolatria la causa di molte emarginazioni: rifiutando Dio, il suo posto viene occupato da cose ritenute più utili e più importanti. Questi nuovi idoli diventano causa di disgregazione morale e di emarginazione sociale: l’uomo prende il posto di Dio e il possesso delle cose viene prima della dignità delle persone. L’amore di Cristo verso i peccatori, i poveri e gli emarginati è l’affermazione della dignità dell’uomo creato a immagine di Dio ed è segno dell’amore di Dio, annunciato con le parabole (cfr Lc 15) e reso visibile dal comportamento di Gesù. L’accoglienza di Gesù verso i peccatori arriva fino all’amicizia, a condividere la mensa e a far festa con loro: “ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” (Lc 7,34). La scelta dei poveri deve portare alla condivisione della loro situazione e non può essere una scelta di tornaconto: “quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti” (Lc 14,13).

Il discepolo e la Chiesa devono vivere la solidarietà e il servizio per affermare la propria fede in un Dio che è amore, per esprimere la consapevolezza della dignità dell’uomo e per vivere la sequela di Gesù che ha amato i poveri e i peccatori.

Senza condivisione con i bisogni dei poveri anche la fede può ridursi a un paravento e la religione può trasformarsi in magia o autogiustificazione (Gc 1,27-2,13)

 

3. Lo storpio della porta “Bella” (Att 3,1-10)

 

Lo storpio dalla nascita, che viene portato ogni giorno alla porta “Bella” del tempio per chiedere l’elemosina, rappresenta l’uomo che dipende totalmente dagli altri e manifesta questa dipendenza tendendo la mano. I due apostoli Pietro e Giovanni stanno per entrare nel tempio per la preghiera vespertina. La porta del tempio costituisce “un buon semaforo” per lo storpio: di lì passa tanta gente e, di solito, chi va a pregare ha il cuore ben disposto verso il povero. Pietro, quando vede il bisognoso, si ferma: è una scelta di condivisione della situazione di immobilità dello storpio che, a causa del suo handicap, non può muoversi. In quel momento l’incontro con il povero è più importante della preghiera. Poi si rivolge a lui dicendo: “Guarda verso di noi”. Per stabilire una relazione occorre guardarsi negli occhi, la situazione di bisogno non diminuisce la pari dignità di persone.

A questo punto lo storpio rimane deluso dalle parole di Pietro: “Non possiedo né argento né oro” /At 3,6). Le premesse sembravano poco allettanti; due persone gentili, purtroppo senza denaro. Ma Pietro continua: “quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina” (At 3,6).

Gesù è un “nome” che salva; Pietro trasmette una Parola potente, che trasforma la vita e rinvigorisce le caviglie dello storpio, che può balzare in piedi e seguire gli apostoli nel tempio: saranno arrivati un po` dopo, ma con un fedele in più!

Nel comportamento di Pietro e di Giovanni è tratteggiata l’icona della Chiesa: disponibili a fermarsi, a condividere la situazione di bisogno, a guardare negli occhi lo storpio, a dialogare con lui, ad allungare la mano per aiutarlo ad alzarsi e a donargli la Parola che guarisce fisicamente e salva.

I poveri di oggi sono gli anziani soli, i malati mentali, gli immigrati, i poveri di pane ma anche di senso della vita e di amore. “Per superare la mentalità individualistica, oggi diffusa, si richiede un concreto impegno di solidarietà e di carità, il quale inizia all’interno della famiglia col mutuo sostegno degli sposi e poi, con la cura che le generazioni si prendono l’una verso l’altra” (CA 49: EV 13/233).

La comunità cristiana deve conoscere i poveri, entrare in rapporto con loro, donare tutto quello che ha perché la liberazione sia integrale; deve essere loro voce profetica, perché “il rispetto della persona umana va oltre l’esigenza di una morale individuale e si pone come criterio basilare, quasi pilastro fondamentale, per la ristrutturazione della società stessa, essendo la società finalizzata interamente alla persona (ChL 39: EV 11/1777).

Oltre a dare da mangiare e da bere occorre denunciare tutto ciò che provoca fame, sete e povertà. La solidarietà ha bisogno di carità e di giustizia.

4. La dottrina sociale della Chiesa e l’amore preferenziale per i poveri

 

Il principio della destinazione universale dei beni richiede che si guardi con particolare sollecitudine ai poveri, a coloro che si trovano in situazioni di marginalità e, in ogni caso, alle persone a cui le condizioni di vita impediscono una crescita adeguata. A tale proposito va ribadita, in tutta la sua forza, l’opzione preferenziale per i poveri :

 

“E’, questa, una opzione, o una forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la tradizione della Chiesa. Essa si riferisce alla vita di ciascun cristiano, in quanto imitatore della vita di Cristo, ma si applica egualmente alle nostre responsabilità sociali e, perciò, al nostro vivere, alle decisione da prendere coerentemente circa le proprietà e l’uso dei beni. Oggi poi, attesa la dimensione mondiale che la questione sociale ha assunto, questo amore preferenziale, con le decisioni che esso ci ispira, non può non abbracciare le immense moltitudini di affamati, di mendicanti, di senzatetto, senza assistenza medica e, soprattutto, senza speranza di un futuro migliore” (SRS 42: AAS 80(1988) 572-573; cfr. EV 32; NMI, 49-50).

 

La miseria umana è il segno evidente della condizione di debolezza dell’uomo e del suo bisogno di salvezza (CCC 2448). Di essa ha avuto compassione Cristo, che si è identificato con i suoi “fratelli più piccoli (Mt 25,40.45): Gesù Cristo riconoscerà i suoi eletti proprio da quanto avranno fatto per i poveri. Allorché “ai poveri è predicata la buona novella (Mt 11,5), è segno che Cristo è presente” (CCC 2443).

Gesù dice: “I poveri infatti li avete sempre con voi, me, invece, non sempre mi avete” (Mt 26,11), non per contrapporre al servizio dei poveri l’attenzione a Lui rivolta. Il realismo cristiano, mentre da una parte apprezza i lodevoli sforzi che si fanno per sconfiggere la povertà, dall’altra mette in guardia da posizioni ideologiche e da messianismi che alimentano l’illusione che si possa sopprimere da questo mondo in maniera totale il problema della povertà. Ciò avverrà soltanto al suo ritorno, quando Lui sarà di nuovo con noi per sempre. Nel frattempo, i poveri restano a noi affidati e su questa responsabilità saremo giudicati alla fine (cfr. Mt 25,31-46): “Nostro Signore ci avverte che saremo separati da lui se non soccorriamo nei loro gravi bisogni i poveri e i piccoli che sono suoi fratelli” (CCC 1033).

L’amore della Chiesa per i poveri si ispira al Vangelo delle beatitudini alla povertà di Gesù, e alla sua attenzione per i poveri. Tale amore riguarda la povertà materiale e anche le numerose forme di povertà culturale e religiosa (CCC 2444). La Chiesa, “fin dalle origini, malgrado l’infedeltà di molti dei suoi membri, non ha cessato di impegnarsi a sollevarli, a difenderli e a liberarli. Ciò ha fatto con innumerevoli opere di beneficenza, che rimangono sempre e dappertutto indispensabili” (CCC 2448). Ispirata al precetto evangelico: “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8), la Chiesa insegna a soccorrere il prossimo nelle sue varie necessità e profonde nella comunità umana innumerevoli opere di misericordia corporali e spirituali: “Tra queste opere, fare l’elemosina ai poveri è una delle principali testimonianze della carità fraterna; è pure una pratica di giustizia che piace a Dio” ( (CCC 2447), anche se la pratica della carità non si riduce all’elemosina, ma implica l’attenzione alla dimensione sociale e politica del problema della povertà. Sul rapporto tra carità e giustizia ritorna costantemente l’insegnamento sociale della Chiesa: “Quando doniamo ai poveri le cose indispensabili, non facciamo loro delle elargizioni personali, ma rendiamo loro ciò che è loro. Più che compiere un atto di carità, adempiamo un dovere di giustizia” ( (S. Gregorio Magno, Regula pastoralis, 3,21: PL, 77,87). I padri conciliari raccomandano fortemente che si compia tale dovere “perché non si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia” (AA 8: AAS 58(1966) 845). L’amore per i poveri è certamente “inconciliabile con lo smodato amore per le ricchezze o con il loro uso egoistico” (CCC 2445).

 

5. Lotta alla povertà

 

All’inizio del nuovo millennio, la povertà di miliardi di uomini e donne è “la questione che più di ogni altra interpella la nostra coscienza umana e cristiana”  (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2000,14). La povertà pone un drammatico problema di giustizia: la povertà, nelle sue diverse forme e conseguenze, si caratterizza per una crescita ineguale e non riconosce a ogni popolo “l’eguale diritto “ad assidersi alla mensa del banchetto comune” (SRS 33: AAS 80(1988) 558). Tale povertà rende impossibile la realizzazione di quell’umanesimo plenario che la Chiesa auspica e persegue, affinché le persone e i popoli possano “essere di più” (PP 6: AAS 59(1967) 260; cfr SRS 28) e vivere in “condizioni più umane” (PP, 20-21: AAS 59(1967) 267-268).

La lotta alla povertà trova una forte motivazione nell’opzione, o amore preferenziale, della Chiesa per i poveri. In tutto il suo insegnamento sociale la Chiesa non si stanca di ribadire anche altri suoi fondamentali principi: primo fra tutti, quello della destinazione universale dei beni (PP, 22: AAS 59(1967) 268). Con la costante riaffermazione del principio della solidarietà, la dottrina sociale sprona a passare all’azione per promuovere “il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siano veramente responsabili di tutti” (SRS 38: AAS 80 (1988) 566). Il principio della solidarietà, anche nella lotta alla povertà, deve essere sempre opportunamente affiancato da quello della sussidiarietà, grazie al quale è possibile stimolare lo spirito d’iniziativa, base fondamentale di ogni sviluppo socio-economico, negli stessi Paesi poveri (SRS 44: AAS 80(1988) 575-577): ai poveri si deve guardare “non come ad un problema, ma come a coloro che possono diventare soggetti e protagonisti di un futuro nuovo e più umano per tutto il mondo” (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2000,14).

Per la preghiera

Salmo 41: Beato chi ha cura del povero

 

Beato l'uomo che ha cura del debole,
nel giorno della sventura il Signore lo libera.
Veglierà su di lui il Signore,
lo farà vivere beato sulla terra,
non lo abbandonerà alle brame dei nemici.
Il Signore lo sosterrà sul letto del dolore;
gli darai sollievo nella sua malattia.
Io ho detto: "Pietà di me, Signore;
risanami, contro di te ho peccato".
I nemici mi augurano il male:
"Quando morirà e perirà il suo nome?".
Chi viene a visitarmi dice il falso,
il suo cuore accumula malizia
e uscito fuori sparla.
Contro di me sussurrano insieme i miei nemici,
contro di me pensano il male:
"Un morbo maligno su di lui si è abbattuto,
da dove si è steso non potrà rialzarsi".
Anche l'amico in cui confidavo,
anche lui, che mangiava il mio pane,
alza contro di me il suo calcagno.
Ma tu, Signore, abbi pietà e sollevami,
che io li possa ripagare.
Da questo saprò che tu mi ami
se non trionfa su di me il mio nemico;
per la mia integrità tu mi sostieni,
mi fai stare alla tua presenza per sempre.
Sia benedetto il Signore, Dio d'Israele,
da sempre e per sempre. Amen, amen.

Per  la vita personale:

Senza condivisione con i bisogni dei poveri anche la fede può ridursi a un paravento e la religione può trasformarsi in magia o autogiustificazione (Gc 1,27-2,13)

  • La mia solidarietà con i poveri si nutre di carità e di giustizia?

                                                                                                   

                                                                                                                J.Fidel Antón

 

 

 
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