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Cana: un Dio che cura anche gli optional[1](Gv 2,1-11)

 

            Continuando queste riflessioni bibliche che mi sono state richieste per il Forum Pastorale: La Famiglia del Murialdo al servizio degli ultimi, proseguo nella metodologia che ho indicato, volendo esplorare un’altra pericope in cui emerga, in modo forse poco evidente ad un primo sguardo, ma certo presente, l’attenzione di Dio verso gli ultimi. La mia scelta è caduta questa volta su un passo del Vangelo di Giovanni: Gv 2,1-11.

 

1 Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c'era la madre di Gesù.  2 Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.  3 Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: "Non hanno più vino".  4 E Gesù rispose: "Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora".  5 La madre dice ai servi: "Fate quello che vi dirà".  6 Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili.  7 E Gesù disse loro: "Riempite d'acqua le giare"; e le riempirono fino all'orlo.  8 Disse loro di nuovo: "Ora attingete e portatene al maestro di tavola". Ed essi gliene portarono.   9 E come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l'acqua) , chiamò lo sposo  10 e gli disse: "Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po' brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono".  11 Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

           

E’ questo brano proprio del solo Giovanni (Sondergut), che non ha perciò paralleli nei tre Vangeli sinottici. Non tratterò, nella riflessione, di tutti gli elementi presenti (ve en sono tantissimi); non desidero neppure cadere nel rischio di una lettura eccessivamente simbolica o addirittura allegorizzante; intendo sottolineare soltanto alcuni aspetti e versetti della pericope, tralasciandone molti per non dilungarmi troppo rispetto agli scopi della proposta.

E’ evidente che vi è nel testo stesso la chiave interpretativa dell’episodio. Questa è la funzione esplicita del v. 11, che orienta a rileggere il racconto in prospettiva cristologia: Gesù fece questo come principio dei segni (è questa una possibile traduzione), rivelò la sua gloria e suscitò la fede dei discepoli.

Quindi Giovanni ci sta dicendo che non solo esso fu il primo segno, ma anche che esso è stato l’inizio, l’archetipo di tutti i segni che Gesù ha compiuto in seguito. In effetti il termine semèion (shmei/on), che troviamo 17 volte nel quarto Vangelo, ricorre 100 volte nella traduzione greca dell’AT (Bibbia dei LXX) e indica principalmente l’azione o l’intervento salvifico e rivelatore di Dio.  Di qui l’importanza e la paradigmaticità di questo segno. Essa si riscontra in vari aspetti. Ne sottolineerò due in particolare: l’attenzione ad un bisogno e la rivelazione della nuova alleanza.

 

L’attenzione ad un bisogno

 

Notiamo come in questo brano Gesù mostri attenzione ad un bisogno, ma non tanto un qualcosa di generico o generale, ma un bisogno concreto, reale, a livello della vita delle persone. Sua madre gli segnala che il vino è finito. Non è una cosa da poco! Se in effetti in un contesto quotidiano e feriale ciò potrebbe essere un qualcosa di irrilevante, un elemento superfluo, non lo è affatto nella situazione in cui ci troviamo. E’ fondamentale ricordarci che il racconto si svolge nel quadro di uno sposalizio, pertanto il vino è essenziale, imprescindibile dalla festa. Ciò per il fatto che il vino, nella cultura semitica e soprattutto nei rimandi biblici all’AT, è la bevanda tipica degli eventi lieti (cfr., ad esempio, Sal 104,15; Sir 31,27-28; 39,26).

Ecco dunque che Gesù si mostra attento, sensibile verso questa situazione di disagio. Egli potrebbe semplicemente non curarsene – in fin dei conti era solo un semplice invitato (e non sappiamo neppure a che titolo) -  ed era compito dello sposo assicurarsi che tutto fosse stato approntato a dovere. Tra l’altro, al discorso di sua madre sembra che Egli non intenda darvi seguito (non mi soffermo sulla risposta di Gesù a Maria e neppure sull’interazione tra la madre e suo Figlio, giacché, per quanto assai interessante, va oltre lo scopo del presente lavoro). Ora invece Gesù non si esime, né fa l’indifferente -  poteva farlo tranquillamente, giacché non era stato richiesto dagli sposi (neppure direttamente da sua madre), non era poi suo compito o suo dovere - bensì si impegna, in prima persona, per risolvere una situazione di difficoltà. Egli non pone un semplice rimedio, un “rattoppo”, una soluzione da poco, ma, come vedremo dopo, dà una risposta piena, straordinaria, eccellente e sovrabbondante!

Non solo trasforma l’acqua in vino, ma addirittura la trasforma in ottimo vino ed in quantità esagerata (l’evangelista ci dice che le sei giare di pietra contenevano ciascuna dagli 80 ai 120 litri circa!).

Non sappiamo, giacché il testo non ce lo dice, se Gesù intervenga, a livello del bisogno, perché la mancanza di vino fosse causata dalla povertà degli sposi, o per evitare loro tale imbarazzo in quel giorno di festa, oppure per qualche altro motivo. L’evidenza è che Gesù risponde a questa indigenza

 

 

La rivelazione della nuova alleanza

 

Vi è, collegato poi con la tematica precedente, un elemento ancor più importante. Dicevo che non conosciamo, a livello del bisogno, la motivazione dell’intervento del Signore, ma lo possiamo comprendere, a livello cristologico, come accennavo, in virtù del v. 11: con questo segno egli manifestò la sua gloria.

Scopriamo che questo vino non è semplicemente la risposta ad un bisogno, il segno dell’attenzione di Gesù a chi è in difficoltà, ma assume una valenza simbolica. Ciò non soltanto in se stesso (è chiaro che il brano si volge in una cornice di nozze e allude alla tipologia nuziale, ma non tratterò di questo aspetto nel presente lavoro), quanto perché nel testo – perciò intenzionalmente dall’evangelista - è messo chiaramente in relazione con l’acqua con cui vengono riempite le giare di pietra.

Infatti possiamo notare come l’autore del quarto Vangelo insista molto nel descriverci questi contenitori. Potrebbe essere considerata una annotazione marginale, ma proprio per il fatto che il narratore accorda tanta attenzione ad elementi così “banali”, ciò è come un indice puntato, una luce che  li pone in forte evidenza (vi è anche una forte concentrazione semantica dei vocaboli acqua, 3 volte, giare, 2 volte, vino, 2 volte ed esso è definito buono/bello , 2 volte).

Altri elementi del testo, apparentemente slegati, servono ad orientarci.

Infatti all’inizio si riporta l’espressione “nel terzo giorno” (questa è  la traduzione letterale, anche se la Bibbia CEI, precedente edizione, riporta: “Tre giorni dopo”; la nuova revisione traduce invece: “Il terzo giorno”), che si ricollega sia alla figura di Giuseppe, figlio di Giacobbe (cfr. Gen 41,55; 42,18), sia soprattutto all’Esodo (Es 19,11). E’ soprattutto questo lo sfondo determinante. Infatti troviamo ulteriori rimandi ad esso, sia nell’uso della parola “segni” (tali sono definiti, ad esempio, l’insieme dei prodigi compiuti e delle piaghe inflitte dal Signore in Egitto), sia nella frase della madre di Gesù “Fate quello che vi dirà”, che richiama tutti i grandi contesti di Alleanza (cfr. Es 24,3; 24,7; Dt 5,27; 17,11).

Un ulteriore dato, che diventa esplicativo, è che giare del brano servivano per la purificazione dei giudei.

Ora anche quest’ultima osservazione è convergente con le precedenti che abbiamo notato, giacché allude ai rituali di purificazione del Pentateuco, ove si parla appunto dei riti necessari per rimanere nel legame con Dio.

Tutto questo ci fa comprendere che ciò che è in gioco è l’alleanza. Pertanto il cambiamento dell’acqua in vino, attuato da Gesù, ci comunica che l’acqua che serviva per la purificazione (antica Alleanza) non basta più a render puri gli uomini, ma che è Dio, rinnovando l’Alleanza attraverso Gesù (col dono del vino nuovo e poi della sua vita) che purifica definitivamente coloro che lo riconoscono.

Inoltre questo dono, simboleggiato dal vino, viene offerto da Gesù con grande eccedenza.

L’autore del Vangelo annota infatti puntualmente che le giare furono riempite “fino all’orlo”, che, associato alla quantità spropositata, determinata dalla capienza dei recipienti, di acqua trasformata in vino, accentua e ci testimonia la grande novità ed abbondanza del dono di Dio.

In aggiunta si legge che il vino è buono. Ciò spicca in base all’osservazione del maestro di tavola, che lo loda come si fa per un vino eccellente. Il vino non solo è gratuito, non solo è sovrabbondante, ma è anche straordinario!

Come ad affermare, col titolo che ho posto a questa riflessione, che il nostro Dio, nel soccorrere l’uomo e nel rispondere alle sue necessità, non fornisce lo stretto necessario, bensì offre ciò che serve con liberalità: è un Dio che cura anche gli optional!

Il vino allora, nell’analisi simbolica e tipologica, è il simbolo della nuova Alleanza.

Nella nostra lettura ciò diviene quindi anche il segno della vicinanza di Dio all’uomo, a chi è nel bisogno, a chi si trova nella difficoltà. Diviene poi l’esplicitazione del desiderio e della volontà operativa di Dio di dare all’uomo, ad ogni uomo, la salvezza che la Legge antica non poteva più concedere ed è, in ciò, attestazione della vicinanza del Signore agli ultimi (nel contesto fattuale del brano, agli sposi in difficoltà per la mancanza di vino; generalizzando, agli uomini che non sono in grado di ottenere la salvezza).

Il vino può inoltre essere letto anche come simbolo della gioia (ma senza esagerazioni; esso non è simbolo, a mio parere, della mancanza di essa, come ritengono alcuni), ma non tratterò neppure di questo aspetto nel presente lavoro.

Un’ultima suggestione è legata all’avverbio “dove” (po,qen), qui riferito al vino nuovo (che è buono, kalo,j). Infatti al v. 9 leggiamo: “9 E come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l'acqua) , chiamò lo sposo”. Ora vediamo come il maestro di tavola non è a conoscenza di dove venga il vino, mentre i servi lo sanno. E’ suggestivo pensare che questa persona ragguardevole (visto il posto che ha e/o il ruolo che ricopre) è ignara del fatto principale (la trasformazione dell’acqua in vino), mentre degli umili servi - forse gli ultimi della situazione - in quanto disponibili a eseguire le indicazioni di quell’ospite che gli ha ordinato di riempire le giare, possono riuscire a capire di dove venga quel vino!

Oltre a ciò, con tale avverbio “dove” (po,qen) Giovanni gioca, perché spesso sarà connesso, nel suo Vangelo, con la figura e l’identità misteriosa di Cristo e dei suoi doni che comunicano la salvezza (vedi: Nicodemo, i pani, etc… Gv 1:48; 2:9; 3:8; 4:11; 6:5; 7:27f; 8:14; 9:29f; 19:9). Quindi il significato del vino nuovo diviene chiaro solamente se posto in relazione con Gesù. E’ il simbolo dei doni di Dio, del dono soprattutto della salvezza degli ultimi tempi, inaugurati ora dal Messia che manifesta la sua gloria. E tale rivelazione è riservata ai suoi discepoli e alla madre, ma la chiave di lettura iniziale (cioè di dove venga quel vino, ossia il fulcro di ciò che in quella situazione poteva permettere di vedere la gloria di Gesù) è affidata anche all’opera umile e semplice di persone che appartengono alla categoria degli ultimi, dei poveri servi, che in virtù di ciò ricevono a loro volta questo dono.

 

 

 P. Diego Cappellazzo

 

 

 

 

[1]Tale espressione non è mia, ma ricordo che mi colpì molto e mi fu suggerita da un carissimo e fraterno amico e confratello, d. Giampaolo Virgilli, Giuseppino del Murialdo sacerdote, persona ricca di umanità e sensibilità e grande educatore, durante una delle tante significative chiacchierate ricche di affetto avute con lui, commentando la Parola. Dedico questa breve riflessione a lui, il cui compleanno è ricorso il 7 di Dicembre, pochi giorni fa.

 
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