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Mosè: amico di Dio e guida del popolo

 

Dal libro degli Atti degli Apostoli (7,20-38)

 

In quel tempo nacque Mosè e piacque a Dio; egli fu allevato per tre mesi nella casa paterna, poi, 21 essendo stato esposto, lo raccolse la figlia del faraone e lo allevò come figlio. 22 Così Mosè venne istruito in tutta la sapienza degli Egiziani ed era potente nelle parole e nelle opere. 23 Quando stava per compiere i quarant`anni, gli venne l`idea di far visita ai suoi fratelli, i figli di Israele, 24 e vedendone uno trattato ingiustamente, ne prese le difese e vendicò l`oppresso, uccidendo l`Egiziano. 25 Egli pensava che i suoi connazionali avrebbero capito che Dio dava loro salvezza per mezzo suo, ma essi non compresero. 26 Il giorno dopo si presentò in mezzo a loro mentre stavano litigando e si adoperò per metterli d`accordo, dicendo: Siete fratelli; perché vi insultate l`un l`altro? 27 Ma quello che maltrattava il vicino lo respinse, dicendo: Chi ti ha nominato capo e giudice sopra di noi? 28 Vuoi forse uccidermi, come hai ucciso ieri l`Egiziano? 29 Fuggì via Mosè a queste parole, e andò ad abitare nella terra di Madian, dove ebbe due figli. 30Passati quarant`anni, gli apparve nel deserto del monte Sinai un angelo, in mezzo alla fiamma di un roveto ardente. 31Mosè rimase stupito di questa visione; e mentre si avvicinava per veder meglio, si udì la voce del Signore: 32Io sono il Dio dei tuoi padri, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Esterrefatto, Mosè non osava guardare. 33Allora il Signore gli disse: Togliti dai piedi i calzari, perché il luogo in cui stai è terra santa. 34Ho visto l`afflizione del mio popolo in Egitto, ho udito il loro gemito e sono sceso a liberarli; ed ora vieni, che ti mando in Egitto. 35Questo Mosè che avevano rinnegato dicendo: Chi ti ha nominato capo e giudice?, proprio lui Dio aveva mandato per esser capo e liberatore, parlando per mezzo dell`angelo che gli era apparso nel roveto. 36Egli li fece uscire, compiendo miracoli e prodigi nella terra d`Egitto, nel Mare Rosso, e nel deserto per quarant`anni. 37Egli è quel Mosè che disse ai figli d`Israele: Dio vi farà sorgere un profeta tra i vostri fratelli, al pari di me. 38Egli è colui che, mentre erano radunati nel deserto, fu mediatore tra l`angelo che gli parlava sul monte Sinai e i nostri padri; egli ricevette parole di vita da trasmettere a noi..

 

 

Nel discorso pronunciato davanti al sinedrio Stefano fa una sintesi della storia del popolo ebraico. Più della metà è dedicata alla figura di Mosè. La vita di Mosè viene divisa in tre tappe di quarant’anni che, secondo il simbolismo biblico, vogliono indicare tre periodi completi e distinti.

 

I primi quarant’anni

                                                                                                         

E’ il tempo che Mosè passa in Egitto, alla corte del faraone, dove viene “istruito in tutta la sapienza degli egiziani”, così da diventare “potente nelle parole e nelle opere” (At 7,22). Dopo essere stato salvato dalle acque, Mosè riceve un’educazione raffinata e una formazione da capo: cresce alla corte del faraone insieme ai rampolli delle famiglie che contano. Divenuto grande ormai pensa di aver imparato tutto, si sente pronto per affrontare la vita e per gestire il potere. Ma la realtà è spesso molti diversa da come si è conosciuta a scuola, i filtri ideologici deformano la lettura corretta degli avvenimenti e inquinano il rapporto vero con le persone. In Mosè è rimasto l’attaccamento alle sue origini. Un giorno decide di “far visita ai suoi fratelli, i figli di Israele, e vedendone uno trattato ingiustamente, ne prese le difese e vendicò l’oppresso, uccidendo l’egiziano” (At 7,24). Mosè è stato mosso da forti motivazioni ideali. Usa il suo potere a favore della giustizia e per costruire l’unità del popolo ebraico oppresso. Ma è un intervento calato dall’alto e un po’ paternalistico, è un suo progetto, non maturato insieme ai “suoi fratelli”, non frutto di condivisione e partecipazione. Mosè si sente forte e sicuro, non ha bisogno di verifiche; invece di percorrere insieme agli altri la strada più lunga del dialogo e del confronto, preferisce battere da solo la scorciatoia del risultato immediato, usando il metodo della violenza.

La sua formazione, costruita lontano dalla gente, lo porta a sentirsi il giustiziere del popolo in nome di Dio: “Egli pensava che i suoi connazionali avrebbero capito che Dio dava loro salvezza per mezzo suo, ma essi non compresero” (At 7,25).

I tempi e i metodi previsti da Dio per la liberazione del popolo ebraico non coincidono con quelli di Mosè. Il suo generoso impegno viene frustrato, la sua spinta ideale crolla: a Mosè, deluso e amareggiato, non resta che la fuga.

 

Dai quaranta agli ottanta

 

Dopo essersi inimicato il faraone con l’uccisione dell’egiziano e dopo essere stato respinto dai suoi, Mosè scappa nel deserto di Madian. La fotografia più emblematica del fuggiasco, stanco e distrutto nel morale, è quella che rappresenta Mosè “seduto presso un pozzo” (Es 2,15). Lì comincia una nuova vita: a Madian Mosè “ebbe due figli” (At 7,29).  

L’uomo “potente nelle parole e nelle opere” ora porta al pascolo il gregge di suo suocero Ietro; il “vice-faraone” con prospettive politiche e militari dall’orizzonte infinito ora si ritira a vita privata; la persona generosamente impegnata per gli altri adesso pensa solo a se stessa.

Questa seconda stagione della vita di Mosè ha le caratteristiche di esperienze vissute da molti nel corso della propria esistenza: il tempo dei grandi impegni frequentemente è seguito da quello del riflusso nel privato. Può essere un periodo vissuto in maniera egoistica e superficiale, quasi come recupero del tempo non utilizzato per se stessi e per soddisfare i propri capricci o divertimenti. Oppure può essere tempo di grazia per una purificazione da quella orgogliosa convinzione che fa sentire indispensabili e padroni del mondo. E’ il tempo della ricerca, quando si sperimenta che nulla di ciò che si fa soddisfa interiormente.

Nella fusione, per la purificazione del metallo, è necessario che le scorie vengano a galla: la sofferenza, la rabbia, le tensioni, le delusioni devono emergere per essere valutate nella loro giusta portata. Ognuno deve liberarsi della mentalità e dei peccati del faraone che covano e crescono dentro il cuore dell’uomo: “fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza” (Mc 7,22).

 

Gli ultimi quarant’anni

 

A ottant’anni Mosè è ancora un uomo vivo: ha occhi attenti per scorgere un roveto che brucia, ma non si consuma, ha orecchi vigili per ascoltare la voce di Dio che chiama. Ma la ricerca richiede impegno. Alla sua età Mosè non ha paura di lasciare la fresca ombra della tenda per affrontare la calura del deserto, non teme di abbandonare il comodo cammino in pianura per inerpicarsi faticosamente su per la montagna: vuole rendersi conto personalmente, libero da ideologie deformanti vuole conoscere la verità direttamente.

Il desiderio di verificare e lo stupore di Mosè a ottant’anni vengono premiati: Dio chiama proprio lui, il “quasi faraone” fallito, il liberatore rinnegato, il pastore ramingo in terra straniera. Dio ha bisogno di Mosè per realizzare il progetto di liberazione del suo popolo: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto… conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e farlo uscire da questo paese. Ora va! Io ti mando dal faraone. Fa uscire dall’Egitto il mio popolo, gli israeliti!” (Es 3,7-11). Altre volte nella preghiera Mosè aveva chiesto che Dio realizzasse i suoi progetti di uomo, ora è Dio che chiede a Mosè di mettersi a disposizione per fare la sua volontà.

Il disegno di Dio comincia là dove era abortito il tentativo di Mosè quarant’anni prima. Ma perché Dio interviene solo ora, perché non ha risparmiato quarant’anni di sofferenza al suo popolo, perché non aveva sostenuto il progetto di Mosè? I tempi di Dio non sempre sono quelli dell’uomo.

Ora Mosè si è “tolto i sandali dai piedi” (Es 3,5); liberato dalla presunzione di salvare i suoi fratelli, si presenta nudo davanti al Signore: solo così può essere strumento docile nelle mani di Dio e segno della sua misericordia.

 

Mosè e Giosuè: la preghiera e l’azione

 

Sapere che Dio lo ama e lo conosce per nome è fonte di meraviglia e di gioia per Mosè, tuttavia l’incarico ricevuto è gravoso: “Chi sono io per andare dal faraone e per fare uscire dall’Egitto gli israeliti? (Es 3,11). Ma Dio, dopo aver chiamato, non abbandona: “io sono con te” (Es 3,12).

La liberazione avrà tempi lunghi, i momenti di difficoltà e di prova non mancheranno, per il popolo e per Mosè. Quando il popolo sta fuggendo e il faraone con il suo esercito sta arrivando, gli israeliti vengono presi da grande paura e contestano Mosè: “Forse perché non c’erano sepolcri in Egitto ci hai portati a morire nel deserto? Che ci hai fatto portandoci fuori dall’Egitto? Non ti dicevamo in Egitto: lasciati stare e serviremo gli egiziani, perché è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto?” (Es 14,11-12).

La strada della liberazione è in salita. Seguire Mosè comporta abbandonare la vita di accomodanti compromessi in Egitto per correre verso un destino conosciuto soltanto da Dio. Anche Mosè viene posto di fronte all’alternativa di trattare la resa con il faraone dando ascolto a chi preferisce non correre rischi tornando in Egitto, oppure fidarsi di Dio: “Perché gridi verso di me? Ordina agli israeliti di riprendere il cammino” (Es 14,15).

Nel combattimento contro gli amaleciti a Refidim, Mosè e Giosuè rappresentano due facce della liberazione. E’ possibile proseguire nel cammino verso la terra della libertà, superando le difficoltà e vincendo i nemici, solo se c’è chi prega e chi combatte. C’è uno stretto rapporto fra Mosè, che prega sul monte aiutato da Aronne e Cur, e Giosuè, il capo militare che combatte a valle con l’esercito. “Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek” (Es 17,11).

All’inizio entusiasma la sensazione di sentirsi strumenti per risolvere i problemi dell’altro, ma ben presto il peso della fatica e l’usura della quotidianità tolgono l’energia e le braccia tendono a cadere. Non si può essere a lungo eroi solitari e avanguardie generose, occorre cercare la collaborazione di tutti: di chi aiuta a tenere le braccia alzate e di chi non ha paura di sudare nel caldo della pianura, sporcandosi nella polvere della battaglia.

 

Mosè: “servo inutile”

 

Dio aveva chiesto a Mosè di tornare in Egitto per mettersi alla guida del suo popolo. E’ una vocazione di grande responsabilità che esige disponibilità al servizio e  portare la croce.

Mosè svolge il suo ruolo di guida e di mediatore fra Dio e il suo popolo innanzitutto con la parola. Le parole di Mosè sono efficaci perché sono l’eco della parola potente di Dio: “Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire” (Es 4,12). Una parola così potente che si trasforma in segni e realizza ciò che dice. Quello che Mosè non era riuscito a ottenere con la violenza, ora lo raggiunge con la forza della parola. Mosè è profeta, cioè portatore della parola di Dio, una Parola che rimprovera e consola, che indica il cammino e suscita speranza nei momenti di paura. Mosè è il postino di Dio che sale sul monte per prendere le tavole dell’alleanza, ma dopo il peccato è anche l’avvocato difensore e lo scudo del popolo nei confronti di Dio: “ Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato… E se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto” (Es 32,32). E’ una preghiera che indica quanto Mosè si senta intimamente coinvolto nella sorte del suo popolo.

Mosè è responsabile della sopravvivenza di coloro che gli sono stati affidati da Dio e si fa strumento per procurare il pane, l’acqua e la carne per il popolo nel deserto.

Ma al termine di quant’anni di fatica Mosè muore sul monte dal quale vede in lontananza la terra promessa.

Sembrano risuonare le parole di Gesù: “Anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10).

 

La libertà del cristiano è una libertà da liberare

 

Abbiamo detto che i tempi e i metodi previsti da Dio per la liberazione del popolo ebraico non coincidono con quelli di Mosè. Voleva fare da solo, forte della sua parola, formazione e potere, senza verifiche né confronti. Eppure Dio ha bisogno di lui per realizzare il suo progetto di liberazione e lo forma adeguatamente alla collaborazione e alla solidarietà, l’unico contesto in cui è pensabile la vera liberazione personale e del popolo. E’ un punto-forza del pensiero sociale della Chiesa.

Il fondamento della liberazione cristiana è Gesù Cristo: in lui infatti Dio si è fatto conoscere nella storia. La sua esistenza storica significa il sì straordinario di Dio all’umanità, ciò che rende possibile per l’uomo un futuro di liberazione. La morte-risurrezione di Cristo è compimento e promessa: evento definitivo della riconciliazione dell’umanità peccatrice con Dio e garanzia della liberazione futura. La Pasqua di Cristo ci apre al futuro inteso come momento nel quale avrà compimento quanto è già germinalmente anticipato per noi nella persona del salvatore.

 

Liberazione e storia

 

La storia è il luogo all’interno del quale siamo chiamati ad operare la liberazione. In essa si manifesta e si realizza la presenza di Dio. La legge dell’incarnazione, della morte e della risurrezione, struttura fondamentale dell’esistenza cristiana, comporta il sì di Dio alla storia in quanto storia. La liberazione cristiana dovrà di conseguenza realizzarsi in intima e costitutiva relazione con l’attività storica dell’uomo. D’altra parte la storia non può essere concepita dal cristiano secondo gli schemi circolari dell’eterno ritorno o del perpetuo cambiamento – come volevano le concezioni relativistiche e storicistiche -, ma secondo uno sviluppo lineare, che trova il suo punto di riferimento definitivo nella rivelazione di Dio in Cristo. Dio, infatti, in Cristo si è espresso storicamente in modo definitivo. Significa che il definitivo esiste ormai nella storia, anche se questa definitività non è tale da escludere il futuro inteso come piena realizzazione della salvezza dell’uomo e del mondo.

Tra il “già” del compimento in Cristo delle promesse dell’AT e il “non ancora” della promessa contenuto nel mistero della morte e risurrezione di Cristo sta l’azione responsabile dell’uomo, chiamato a trasformare il mondo. L’avvenimento Cristo implica perciò la responsabilità totale dell’uomo di fronte alla storia, nella quale si va operando il mistero della salvezza di Dio. La liberazione cristiana è dunque una liberazione realizzata nella storia.

La speranza umana, storica, che può essere sintetizzata nelle due grandi aspirazioni dell’uomo all’integrità del suo essere e alla comunione con tutti gli uomini e con il mondo, trova pertanto nel messaggio cristiano la sua piena legittimazione. Ma contemporaneamente il messaggio cristiano denuncia i limiti e le ambiguità di un’attesa del futuro puramente storica. L’orientamento ultimo, definitivo della storia è infatti dato da quelle che J. Moltmann definisce “le riserve escatologiche”, cioè da un al di là della storia. Proprio queste riserve escatologiche consentono al cristiano di aprirsi ad un orizzonte metastorico e transmondano e contemporaneamente gli permettono di giudicare la storia e le parziali realizzazioni delle aspirazioni umane con senso critico, con discernimento, in altre parole: con la consapevolezza della loro relatività.

La liberazione cristiana è dunque, in ultima analisi, attesa dei “cieli nuovi e delle terre nuove” che Dio preparerà alla fine dei tempi per l’umanità e insieme impegno responsabile a realizzare, qui e ora, cioè nella storia, il progetto di Dio. Il cristiano sa che in definitiva la base della sua speranza riposa in Gesù Cristo, che cioè l’umanità è la strada che conduce alla divinità, perché Dio stesso si è umanizzato e ha trasfigurato e assunto in se stesso tutte le cose dell’uomo e del mondo.

 

 

Liberazione come sviluppo integrale dell’uomo

 

L’antropologia moderna è tutta orientata a considerare l’uomo e il mondo nella sua essenziale relazione con l’uomo, non tanto per quello che sono stati e sono, quanto principalmente per quello che sono chiamati ad essere; in altre parole: in rapporto al loro futuro.

L’uomo, nella stessa coscienza del suo essere, fa antinomicamente esperienza della sua apertura all’infinito e del suo limite creaturale. Nasce di qui la sua radicale inquietudine, che è tensione verso la crescente realizzazione di sé. E’ questo il dinamismo, la forza vitale che lo spinge verso il futuro: ogni uomo in quanto ha delle aspirazioni e fa dei progetti. Essere e farsi costituiscono i due poli della dialettica dell’esistenza umana. Ora l’uomo avverte che non può farsi, non può diventare se stesso negli atti della propria libertà se non in rapporto con gli altri e con il mondo. Egli è chiamato a realizzare la sua fondamentale vocazione ad essere sempre più se stesso attraverso la attuazione di una comunione interpersonale sempre più piena ed un impegno illimitato di trasformazione del mondo. E tutto questo nonostante sia consapevole che esiste un dislivello invalicabile fra la profonda tensione del suo spirito e i risultati concreti della sua azione.

La liberazione cristiana è perciò sviluppo integrale di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Certo la liberazione radicale dell’uomo che Cristo ci dona con la sua morte e la sua risurrezione, è essenzialmente redenzione dell’uomo dal peccato e dalle sue conseguenze. Ma tale peccato, che è rottura del rapporto personale di comunione dell’uomo con Dio, non è una realtà individuale, privata ed intimista; è un fatto sociale, storico. E’ mancanza di fraternità, di amore nelle relazioni col prossimo, e conseguentemente divisione interiore. Le situazioni di ingiustizia, infatti non sono casuali, non sono realtà segnate da un destino ineluttabile; alle loro spalle esiste sempre una precisa responsabiltà dell’uomo. Se tutto questo è vero, allora la liberazione, che Cristo ci ha portato, non può non includere una dimensione sociale e politica. L’opera di Cristo consisterà pertanto nella liberazione totale dell’uomo. In questo senso la vita cristiana è una pasqua, un passaggio dal peccato alla grazia, dalla morte alla vita, dall’ingiustizia alla giustizia, dall’infraumano all’umano. Cristo infatti ci fa entrare, mediante il dono dello Spirito, in comunione con Dio e con tutti gli uomini. Ed è proprio perché ci fa entrare in questa comunione, che egli vince il peccato, negazione dell’amore.

Ma questo processo, iniziato da Cristo, deve essere portato a compimento dall’uomo. Ciò avviene attraverso ogni forma di lotta contro lo sfruttamento e l’alienazione: essa è già opera salvifica, cioè costruzione del Regno. La crescita del Regno è dunque un processo che si svolge storicamente nella liberazione, in quanto essa significa una maggiore realizzazione dell’uomo, la costruzione di una società nuova. In Cristo perciò la globalità del processo liberatore raggiunge il suo pieno significato. La sua missione salvifica è totale, abbraccia l’uomo in tutte le sue dimensioni – tutto l’uomo e tutti gli uomini-; è perciò anche salvezza politica nel senso più profondo e più autentico.

 

 

Liberazione e impegno politico

 

L’azione del cristiano, liberato da Cristo dovrà allora necessariamente tradursi in impegno politico per la liberazione dell’uomo e l’umanizzazione del mondo. L’apertura del cristiano al futuro non è evasione dal presente, bensì chiara ed energica incidenza sulle situazioni sociali in cui è inserito. L’ordine presente e quanto esiste si trovano profondamente messi in causa dalla “promessa” contenuta nel mistero pasquale di Cristo. La speranza cristiana, che vince la morte, deve perciò gettare le radici nella prassi storica; se non prendesse corpo nel presente per portarlo più avanti non sarebbe altro che una sterile evasione. Aveva ragione A. Camus quando diceva che “la vera generosità verso il futuro consiste nel dare tutto al presente”. Proprio per questo è necessario riscoprire il rapporto tra evangelo e politica. Il cristiano, chiamata alla liberazone integrale dell’uomo, non potrà prescindere dalle strutture politiche entro le quali viviamo. La rottura tra la vita religiosa e la vita sociale ha provocato purtroppo l’estraneazione della religione dal mondo. Il messaggio cristiano è diventato così un fatto privato, la vita di fede si è ridotta ad un’opzione personale. E’ necessario, come dice J.B. Metz “deprivatizzare” il messaggio. E tuttavia tale processo, se si vuole evitare il rischio della mescolanza tra politico e religioso, deve avvenire mediante la determinazione di un nuovo tipo di relazione,basata sulla carica “critica e liberante del mondo sociale”, che il messaggio cristiano possiede.

La proclamazione della salvezza cristiana contiene, infatti, le inesauribili promesse di libertà, di giustizia e di pace, che costituiscono le “riserve escatologiche” il cui ruolo è di sottolineare il carattere provvisorio di ogni stadio storico raggiunto dalla società. Tutto questo porterà a fare della Chiesa “un istituzione critica della società” al servizio della liberazione dell’uomo. Evidentemente la Chiesa non potrà esercitare questo ruolo se non diventerà, al suo interno, una comunità povera e liberatrice, cioè se non proclamerà permanentemente la propria precarietà, annunciando la speranza nel regno di Dio.

Il giusto rapporto tra fede e politica, e quindi tra Chiesa e politica va ricercato nel ricupero della dottrina dell’utopia. Il piano sul quale è infatti possibile che fede e azione politica entrino in una relazione corretta e feconda è quello della creazione di un nuovo tipo di uomo in una società diversa. E’ il progetto della liberazione integrale, che sta alla base dell’utopia, intesa come denuncia dell’ordine esistente e annuncio di un ordine nuovo, e insieme come impegno storico a realizzarlo nel presente con senso di creatività e di immaginazione. L’impegno politico del cristiano è allora un camminare verso l’utopia di un uomo più libero, più protagonista della propria storia. Ma l’utopia, per assolvere validamente questo compito, dovrà continuamente essere verificata nella prassi sociale, perché diventi impegno effettivo senza purismi intellettuali e senza illegittime pretese. La creazione dell’uomo nuovo, che essa propone, è, infatti, il luogo di incontro tra la liberazione politica e la comunione di tutti gli uomini con Dio, che passa attraverso la liberazione dell’uomo dal peccato, radice ultima di ogni ingiustizia e di ogni contrasto tra gli uomini. La fede ci garantisce che questo progetto è possibile, che gli sforzi per realizzarlo non sono vani, che il definitivo si sta costruendo nel provvisorio. E tutto ciò perché Cristo è morto ed è risorto per noi.

Aprendoci costantemente al futuro, la libertà di Cristo ci fa radicalmente liberi per impegnarci nella storia a liberare l’umanità e il mondo.

 

 

Per la preghiera

 

Salmo 145: “non confidare nei potenti: è il Signore che libera

 

Loda il Signore, anima mia: 2loderò il Signore per tutta la mia vita,

finché vivo canterò inni al mio Dio. 3 Non confidate nei potenti,

in un uomo che non può salvare. 4 Esala lo spirito e ritorna alla terra;

in quel giorno svaniscono tutti i suoi disegni. 5 Beato chi ha per aiuto il Dio di Giacobbe,

chi spera nel Signore suo Dio,

6 creatore del cielo e della terra,

del mare e di quanto contiene.

Egli è fedele per sempre, 7 rende giustizia agli oppressi,

dá il pane agli affamati.

 

Il Signore libera i prigionieri,

8 il Signore ridona la vista ai ciechi,

il Signore rialza chi è caduto,

il Signore ama i giusti, 9 il Signore protegge lo straniero,

egli sostiene l`orfano e la vedova,

ma sconvolge le vie degli empi. 10 Il Signore regna per sempre,

il tuo Dio, o Sion, per ogni generazione

 

E’ inutile che l’uomo si appoggi e ponga la sua fiducia nelle sue forze o in chi è potente. Il salmo dice che è un errore perché anche lui è un uomo mortale. Solo la speranza posta nel Signore non viene delusa perché è lui il creatore, è fedele per sempre, è capace di rendere giustizia, è premurosamente vicino a chi ha bisogno ed è disponibile a venire in aiuto: “il Signore regna per sempre, il tuo Dio per ogni generazione”.

 

Per la vita: In chi poni la tua fiducia?

 

 

 

 
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